Come molti di voi sanno già ho questo privilegio di avere due amici un po’ particolari, un bel tipo di sei anni e una splendida fanciulla di dodici. Li definisco amici non per eufemismo o giro di parole – tecnicamente sono i figli del mio compagno, cioè i miei figliastri – ma perché fin dal primo momento la relazione tra di noi è stata impossibile da definire diversamente.
Due esseri umani molto diversi da me, di un tipo a me particolarmente alieno (B-A-M-B-I-N-I), mi hanno visto e sostanzialmente adottato, insegnandomi una cosa abbastanza interessante e cioè che i bambini sono persone, nel senso che sono molto diversi tra di loro. Visto che mi piacciono pochissime persone, è normale che mi piacciano pochissimi bambini: sono abbastanza fortunata perché questi due che mi girano per casa un terzo del tempo (che coincide con metà del mio tempo libero) mi piacciono assai.
Essere amica di un bambino molto piccolo è possibile solo se hai con lui in comune qualcosa di molto importante per entrambi: nel nostro caso è il cinema, in particolare i film di Miyazaki e i supereroi. Quando siamo insieme inventiamo e viviamo delle storie e con lui ho fatto una pratica di storytelling che mai nessun workshop potrebbe superare. Non gliele racconto: le mettiamo in pratica. Lui poi, come me, tende molto a farsi i fatti suoi, quindi per gran parte del tempo insieme ognuno fa quello che preferisce.
Molto, molto diversa lei: una delle persone più socievoli che conosca, un po’ come il papà, che chiacchiera sempre e comunque e con tutti. Io no. A meno che, come mi sa che si capisce, la chiacchiera sia per iscritto.
Ai primi di luglio di quest’anno le regaliamo per il suo compleanno il suo primo smartphone, lo SmartMini. La fusione ragazzina-smartphone è praticamente immediata, e ce lo aspettavamo. Quello che non ci aspettavamo è come questo ha influito sulla qualità del nostro tempo insieme, o meglio, di quello che prima era il nostro tempo lontani.
Se non avete presente funziona così: per dieci giorni io e @gallizio siamo una coppia, poi il martedì (oh no è già di nuovo quel martedì) ricompaiono i bambini, poi spariscono per ricomparire il venerdì e fino a lunedì mattina sei parte di una famiglia con la spesa, la pasta, i compiti, il latte etc, poi spariscono per dieci giorni. Una bella ginnastica mentale, una specie di gioco di ruolo che si accende e si spegne in base a un calendario deciso da altri.
Fino a giugno di quest’anno nei giorni di sparizione la grande e il papà si telefonano la sera, una telefonata molto importante per entrambi ma che non sempre fila liscia: è troppo tardi, troppo presto, ancora a cena, già a letto, da un’amica, il film, la qualunque.
Da luglio invece abbiamo una nostra stanza su Whatsapp, sempre aperta, in cui chiacchieriamo in continuazione. Io per iscritto, lei scrive e fa foto, il piccolo registra i messaggi vocali, il padre fa tutte e tre le cose. Lo so che non siamo insieme, non dico che è la stessa cosa, ma sicuramente ci sentiamo molto più vicini di prima.
Se state pensando che tutta questa è una mia razionalizzazione sappiate che una decina di giorni fa, a cena dai nonni, lei ci ha tenuto a spiegare al classico ospite «odore della carta signora mia dove finiremo con questi telefoni» che da quando ha lo smartphone può chiacchierare quando vuole con il suo papà e dirgli anche cose che magari di persona si vergognerebbe e che è un modo bellissimo per sentirci vicini anche quando siamo lontani. Non avrei saputo spiegarlo meglio.
interessante spaccato.
tra miazaki, whatsapp e famiglie allargate.
grazie!