Nell’ottobre 2007 scrissi un post su Maestrini per caso che si chiudeva così:
Questo blog è uno spazio personale e non sarà mai in vendita, neanche per il miglior tramezzino del mondo. Chi vuole vendere il suo blog e la reputazione con esso guadagnata, è liberissimo di farlo, ma per favore, non mettetemi (non metteteci, che il Maestrino sottoscrive) nello stesso campo da gioco.
Se ne parlò molto e molti pensarono che io fossi spinta da etica e da idealismo, che sono anche importanti ma nel caso specifico c’entravano poco. Lo si pensa spesso di chi non si (s)vende e la breaking news è che spesso chi lo fa vuole vendersi meglio, tutto qui. Io, almeno, lo faccio per quello: non sputtanarsi, nel medio/lungo periodo, paga.
Qualche mese prima, a un BarCamp, avevo espresso la mia preoccupazione sulle conseguenze di una professionalizzazione dei blog; l’intervento si chiamava «La kryptonite dei social media» e la mia tesi era abbastanza semplice:
Più valore per tutti? Nel momento in cui un blogger gode delle ricadute positive della sua passione, del suo impegno libero e disinteressato, della sua generosità, l’intero sistema ne guadagna e niente viene sottratto alle dinamiche virtuose delle community (di tutte, non solo quelle blog based). O più valore per me? Nel momento in cui un blogger perde la sua libertà perché agisce in vista di un fine, esce dall’economia del dono ed entra nell’economia di mercato: il suo scopo non è più il divertimento o la riflessione o la scrittura [il passo], ma [la meta].
Chi esce da una dinamica sociale per entrare in una editoriale cambia a tutti gli effetti campo di gioco. L’abbandono dell’economia del dono determina:
- responsabilità (anche in termini di aspettative)
- asimmetria sociale (i propri interlocutori si trasformano in «audience» e non riescono più a ricambiare con la propria competenza quella messa a disposizione, interrompendo la
crescita di valore del sistema).
Anche in quel caso venni presa da molti per un’idealista un po’ fuori dai veri giochi di soldi e potere: la professionalizzazione dei blogger sembrava inevitabile, se non desiderabile. Sette anni dopo i blog sono testate di serie B (se non C), i blogger quando va male mendicano campioncini e quando va benino vendono la loro “influenza” un tanto al chilo. Solo pochi sono riusciti a entrare appieno in una dinamica editoriale e ci sono riusciti prendendosi appieno la loro responsabilità di informare/intrattenere i lettori e di creare valore per gli inserzionisti, ancora meno sono riusciti a restare in una logica puramente sociale in cui la notorietà e la reputazione non sono merci di scambio diretto ma servono a migliorare il proprio valore di mercato come professionisti.
(Qualcuno, pare, si diverte ancora a scrivere :-)
Qual è la conseguenza di tutto questo per le aziende, cioè per i miei clienti? La principale conseguenza è che sempre di più gli influencer, esattamente come Facebook, sono diventati un medium a pagamento. Se paghi, però, cambi campo da gioco: ottieni con maggiore facilità obiettivi numerici importanti, ma o sei costretto a barare (violando le norme che impongono di dichiarare esplicitamente che un parere è stato comprato) oppure, esattamente come nel 2007, esci dall’economia del dono ed entri nell’economia di mercato. Hai l’illusione di comprare “peer influence” ma stai comprando uno spot a due dimensioni (un post, ah ah): non stai facendo digital pr, non stai facendo social media marketing, stai comprando spazi pubblicitari.
Niente di male, sia chiaro, anzi: l’importante però è saperlo :-)
[…] post precedente ha scatenato un putiferio che non mi aspettavo, anche perché pensavo che questo tema fosse ormai […]