Il cugino del pandoro
(Anche quest’anno mi faccio un regalo di Natale e metto in fila un po’ di fastidi che mi hanno accompagnato per tutto l’anno e che ho messo a tacere finché non li ho visti riecheggiare qua e là. È un regalo anche per chi apprezza il confronto aperto: mettete le code di paglia nelle mutande e godiamoci il passo avanti che potremmo fare tutti insieme)
Alla fine degli anni ’90 moltissime persone dalla formazione eterogenea (ma spesso di estrazione tecnica) hanno iniziato a occuparsi di marketing e comunicazione perché molto esperti di un medium e dei suoi vari ambienti, cioè Internet. Ai tempi aveva molto senso e per anni saper usare “Internet” è stato più importante di saperne di comunicazione: molti strada facendo hanno studiato e imparato, qualcuno è rimasto ancorato all’idea di poter restare fuori dai giochi del marketing brutto e cattivo solo perché “digitale”.
Come sa chiunque lavori in questo settore la convinzione che “potrei farlo anch’io, se solo avessi il tempo” avvelena e impoverisce tutti, compresi quelli di cui sopra: conviene a tutti ricordare che la comunicazione – digitale e non – non è più un passatempo per fanciulle annoiate (lo è stato) ma è ormai un corpus di nozioni e di tecniche, con una storia che ha permesso di imparare alcune cose, tra cui per esempio evitare di improvvisare. Negli anni ’50, in pieno boom economico, i Mad Men potevano creare campagne straordinarie senza avere la minima nozione di psicologia della comunicazione o di marketing (anche perché è stato inventato dopo), nel 2015 fare questo lavoro senza una competenza specifica mette pesantemente a rischio la brand equity, soprattutto quando ci si trova in prima linea a parlare direttamente con i clienti.

Nel 2014 dicevo “presto smetteremo di parlare di Internet, cioè della tecnologia, per tornare a ragionare sulle persone e su quello che le persone fanno, al di là della distinzione artificiale fra online e offline” e per fortuna la frattura tra il mondo offline e il mondo digitale e quindi tra il marketing tradizionale e quello digitale si sta richiudendo. A me sembra sempre più evidente che certe giovanili ingenuità di quest’ultimo non possano più avere diritto di cittadinanza e comincio a incontrare più spesso professionisti che sono prima di tutto comunicatori, e solo dopo smanettoni (informatici e non). Massimo rispetto per questi ultimi, ma, come dice Osvaldo Danzi:
*Quasi nessuno fra coloro che si definiscono “influencer”, che hanno blog spesso molto seguiti e sui social guadagnano “like” ad ogni sospiro, sarebbero in grado di definire una strategia efficace per un’azienda quanto invece sono bravissimi a fare self-marketing (trad.: se la cantano e se la suonano).
È molto diverso sapersi affermare, cioè vendere un prodotto che si conosce molto bene e che dipende solo da noi, o saper affermare un’azienda o un prodotto esterno, con tutte le mediazioni e le fatiche del caso, come molto ben sintetizzato sempre da Danzi: “un lavoro che richiede una grande capacità di relazione, di collaborazione, di coinvolgimento prima di tutto. Poi di strategia, di comunicazione, di scrittura.” Come sempre esistono numerose eccezioni e invidiabilissimi talenti naturali, ma nella maggior parte dei casi la mancanza di competenza e di esperienza si fa sentire soprattutto nella cura del contenuto.
Sempre più spesso vediamo aziende che anche sui mezzi tradizionali *pubblicano il briefing*, come amo dire facendomi forse capire poco, e anche questo è parte del problema.
Il professionista della comunicazione, infatti, viene pagato (caro) per prendere un contenuto che qualcuno è interessato a diffondere (descritto nel *briefing* insieme agli obiettivi) e trasformarlo in un messaggio che, pur raggiungendo gli obiettivi del cliente, qualcuno è interessato a ricevere.
Lo spiega bene Titti Paternoster commentando l’ormai celebre scivolone di Melegatti:
“l’unica spiegazione è che l’autore di questa frase non sia un copy, ma sia qualcuno che non abbia idea di come tradurre in parole un messaggio che rispetti il target di riferimento, l’intento comunicativo e lo stile editoriale concordato.”

È un lavoro, non una passione: lo ha capito tra i primi Dania che tempo fa scrisse “essere molto seguita sui social non vuol dire saperlo fare per conto di altri” e che, coerentemente, ha di recente chiuso la sua Partita IVA per potersi concentrare su quello che è il vero sogno di molti comunicatori: vivere della tua scrittura, non di quella conto terzi.
Non sono l’unica innervosita dalla confusione tra sapersi raccontare e saper comunicare un’azienda e dalla convinzione che il “digital marketing” richieda competenze più digital che marketing, ma il mio nervosismo conterebbe davvero poco se non stessimo assistendo a un impoverimento sempre più palese delle strategie e del linguaggio pubblicitario. Vogliamo rallentare la diffusione degli ad blocker? Iniziamo dal restituire la strategia e la creatività a chi ha studiato per farlo, scegliendo tra quelli che nel frattempo si sono trasferiti nel ventunesimo secolo e non vedono più “Internet” come qualcosa che non li riguarda. Per tutti gli altri lungi da me l’idea di censurare alcunché, ma nel caso ripartiamo dalle basi, dimenticando l’assurda idea che il marketing digitale (con tutte le sue declinazioni) parta da zero, senza niente da imparare dalle esperienze precedenti.
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Ci sono 4 commenti
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[…] lo ricorda bene Mafe, quando in un post che ti suggerisco di leggere perché fa fare pace con il mondo, […]
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Grazie Mafe un quadro precisissimo e condivisibile.
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grazie, ho letto con attenzione e condivido le tue osservazioni, anche se come giornalista devo mediare tra carta stampata, blog e scrittura digitale. Cerco di imparare ogni giorno e seguo chi è più competente di me, ogni esperienza mi fa crescere professionalmente.
[…] di comunicazione che vediamo. È una situazione in divenire, perché come scrivevo qualche mese fa le competenze del comunicatore (digitale e non) sono tornate a dominare rispetto alle competenze tecniche di uso dei mezzi, ma in attesa di scollinare stiamo raggiungendo […]