Ri-vedere il turista

Quanto siamo davvero disposti a condividere la nostra energia vitale con chi viene da fuori? Perché se il turista è solo un portatore di reddito e non un ospite è arrivato il momento di guardare in faccia questa realtà e accettarne le conseguenze.

“Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”
Marcel Proust

Se lavori nell’accoglienza turistica è molto probabile che questa frase ti causi una leggera nausea, simile a quando hai mangiato troppi zuccheri. Non è colpa di Proust, ma dell’abuso che ne abbiamo fatto. Proprio dall’abuso di retorica vorrei ri-partire, con un invito: che ad avere nuovi occhi non siano i poveri viaggiatori, ma gli operatori.
Per ri-vedere il turista assente, causa pandemia, partiamo da una domanda: noi italiani siamo davvero così accoglienti? Quelli con meno bellezza pronta all’uso, come i romagnoli, sicuro. Gli altri?

A febbraio 2020 la parola d’ordine del settore era overtourism. Le preoccupazioni:

  • Come respingere l’assedio delle città d’arte.
  • Come dare fiato ai residenti invasi dai turisti.
  • Come salvare le tradizioni dalle ristrutturazioni, la montagna dagli sciatori, le spiagge dai bagnanti.
  • Come ripulire i centri storici dagli instagrammer che fotografano solo per farsi belli.
  • Come togliere i palazzi del centro (anche dei centri abbandonati) da airbnb e simili.

In sintesi: a febbraio 2020 il mondo dell’accoglienza italiano ragionava su come liberarsi dei propri clienti.

Intendiamoci, l’invasione turistica è un problema. La concentrazione dei flussi in poche zone e in poco tempo pure. Problemi che però nascondono un altro problema, forse più grave: i turisti, per l’Italia, sembrano un male necessario, una fonte di reddito, “portafogli con le gambe”, diceva qualcuno, avvoltoi pronti a spolpare le carcasse degli albergatori in difficoltà, ha detto di recente qualcun altro. Pandemia o no, non poteva durare.

Anni fa, per la precisione nel 2013, io e Filippo scrivevamo:

Se vogliamo dire oggi qual è il vantaggio competitivo di una destinazione possiamo dire che è l’energia dei posti, la loro vitalità, la felicità/energia dei loro abitanti.

Per vitalità intendiamo qualcosa che non è per forza lusso, successo o ricchezza. La vitalità è qualcosa che ti dia la sensazione di essere nel flusso delle cose: quando siamo scarichi e spenti cerchiamo autenticità e forza vitale ed è esattamente questo che cerchiamo quando andiamo altrove.

La vitalità di un posto non può che nascere dalla vitalità di chi lo abita. Per questo possiamo dire, parafrasando Felice Accame, che se la squadra di casa non c’è, quel posto non ci darà l’energia di cui abbiamo bisogno. Non ce la darà prima, non ce la darà durante, non ce la darà dopo la nostra permanenza, e questo a prescindere dagli strumenti che usiamo per informarci, per sceglierla e per raccontarla.

Né turisti, né viaggiatori: ospiti

I nuovi occhi che ci servono, dopo tre mesi di forzata chiusura, conviene aprirli qui: quanto sono vitali i nostri luoghi? E soprattutto quanto siamo davvero disposti a condividere la nostra energia vitale con chi viene da fuori? Perché se il turista è solo un portatore di reddito e non un ospite è arrivato il momento di guardare in faccia questa realtà e accettarne le conseguenze.

Per i tanti, tanti posti in cui il turista è un ospite gradito: diciamolo. Facciamolo percepire con tutti i sensi a nostra disposizione. Mostriamo la cura che ci prendiamo dei nostri ospiti prima del loro arrivo, a prescindere dal loro arrivo. Diciamolo tutti insieme, ciascuno a suo modo: ehi, mi sei mancato. Questa spiaggia, questa montagna, questo borgo non sono lo stesso senza di te.

Se non possiamo dirlo sinceramente, ripartiamo da qui, per riprogettare tutto. Il problema non è l’overtourism, è la ghettizzazione del tourism: o li facciamo entrare nelle nostre vite, con il sorriso che rivolgiamo ai nostri cari, o perderemo a vantaggio di chi sa far sentire le persone accolte per davvero.

Foto di Maria TenevaUnsplash

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