Sono coetanea di Naomi Campbell, ho qualche anno in meno di Tatjana Patitz e qualche anno in più di Kate Moss. Avete mai sentito parlare delle Supermodel, in particolare le Big Six? Erano le modelle, no, le donne più belle del mondo e mentre la mia autostima perdeva i dentini da latte loro uscivano dalle passerelle per diventare delle vere proprie divinità.
Per una ragazza degli anni ’80 sentir criticare gli inarrivabili modelli estetici delle ragazzine di oggi è abbastanza straniante, visto che siamo delle vere e proprie sopravvissute a un periodo in cui una Meryl Streep poteva essere considerata bruttina e al cinema – con scarse eccezioni – il lieto fine era ancora essere così carina da riuscire a farti rapire da un Ufficiale e gentiluomo, sposare dal padrone delle ferriere o salvare dalla strada da un miliardario. Mickey Rourke spezzava il cuore a Kim Basinger, per capirci.
Negli anni ’90, quando lavoravo in pubblicità, ho seguito un casting per cercare la protagonista di uno spot di abbigliamento sportivo. Dato il cliente la modella non poteva essere filiforme, ma anche se tutte le ragazze di cui guardavamo i portfolio pesavano la metà di me per i miei colleghi erano impossibili da riprendere con l’occhio cattivo della macchina da presa. Vi risparmio i loro commenti, dicendovi solo che erano in linea con quello di un ragazzo che, in spiaggia, guardandomi mangiare un panino in costume, disse OTTANTA fame (si riferiva alla sua stima del mio peso), o con un altro in Grecia che, dopo avermi guardato a lungo e sorriso da lontano, si girò verso l’amico scuotendo la testa segnalando con le mani che mi aveva guardato meglio ed ero una culona.
Oggi abbiamo la voglia e la possibilità di vestirci un po’ come vogliamo e possiamo dire basta al body shaming, anche se le prime a scuotere la testa e a ridacchiare per certe *mise* un po’ azzardate siamo ancora noi, tra di noi. È una battaglia sacrosanta e a me sembra anche una battaglia con la vittoria in vista, come tante altre. Se a 15 anni, negli anni ’80, avessi fasciato il mio culone nei jeans solo perché lo faceva Brooke Shields nessuno avrebbe pensato di difendere il mio diritto a farlo, perché non era considerato un diritto. Se negli anni ’80 qualcuno avesse titolato che un’arciera era cicciottella lo avremmo letto annuendo come a dire “certo, è cicciottella, ah ah”. Una bambina fatta a forma di bigné, quell’enorme mistero volò.
Vogliamo parlare di role model narrativi? Prima di Bridget Jones, il deserto. Una Lena Dunham ce la sognavamo, anzi, forse non avremmo saputo che farcene: eravamo felicissime con Jennifer Beals che faceva la saldatrice in felpa e non ancora pronte a immedesimarci in qualcuna troppo simile a noi. Sex & the City era liberatorio perché quattro donne parlavano di sex e non solo di love, non so se rendo l’idea. Ci esaltavamo per “baby che non si fa mettere nell’angolo”, accipicchia. Ripley e Sarah Connor picchiavano duro, certo, talmente duro da non sembrare neanche più donne. La principessa Leila era tosta, ma lo Jedi era Luke. Oggi lo jedi è Rey. Oggi The Bride Kill Bill. Oggi il protagonista di Mad Max è Furiosa, non Max.
Quando ricordo i tanti passi avanti fatti troppo spesso vengo trattata da rinunciataria o da negazionista. Il grande assente dei nostri tempi (o forse di tutti i tempi) è la prospettiva storica: ricordare che prima stavamo molto, molto peggio non vuol dire “accontentiamoci”, vuol dire “andiamo avanti senza pensare che stiamo andando indietro”. Si va come le lumache in salita: tre metri avanti, due indietro, ma io quel metro avanti lo vedo e lo vivo molto bene.
È sempre la lezione del #Luminol: non è sempre che i problemi aumentano, è spesso solo che si vedono di più. O si vedono, mentre prima no.
Non solo: la prima innamorata di Brooke Shields (o di Naomi Campbell o di Kate Moss o, in genere, della bellezza femminile) ero e sono io, e non perché qualcuno mi ha manipolato. Non solo: i miei primi riferimenti estetici non erano le Supermodel, erano le mie amiche, che in molti casi erano belle belle in modo assurdo e pure simpatiche e anche intelligenti e sì, magre naturali. Potete pensare che la pressione a essere bella nasca con le riviste e la moda e il marketing quanto volete, ma come ricorda Serena La Rosa noi donne ci confrontiamo prima di tutto con lo sguardo delle persone a cui vogliamo piacere: lo sguardo del padre, prima di tutto (con i suoi “copriti” ma anche i suoi “non sei come speravo”) e poi quello di chi vorremmo sedurre (uomo o donna che sia).
Nel chiedere di non essere offese per i nostri difetti non possiamo negare la bellezza della bellezza: apprezzarla ha radici profonde e ha più a che fare con l’armonia della natura che con le imposizioni della cultura.
Facciamo attenzione a non trasformare il body shaming (criticare il corpo di una persona) in shame shaming (criticare la vergogna di una persona): volersi bene “così come siamo” non deve diventare un modo per dimenticare che prendersi cura del proprio corpo è il modo migliore per farlo. Mi sento molto anzyana a dirlo, e in parte lo sono, ma curare la propria bellezza è un modo molto bello di prendersi cura di sé e non c’è niente di male o di malsano o di sbagliato a farlo. Nessuno può dirmi di non mettermi gli shorts perché non mi stanno bene, ma perché metterli se non mi stanno bene? Da cosciona vi garantisco che se voglio stare comoda e fresca con il caldo gli shorts sono l’ultima cosa che mi viene in mente di indossare e il mio sospetto è che il diritto a indossarli a tutti i costi sia l’ennesima forma di conformismo, l’ennesima moda da seguire a tutti i costi.
Se sei sovrappeso hai caldo perché sei sovrappeso: essere magri è molto più comodo, anche se è diventato politicamente scorretto dirlo. La stessa Dunham dice “I won’t say I’ll never lose weight in my life, but it’d have to be for reasons that made sense to me and weren’t to try to meet some industry standard”: il rischio dello “shame shaming” è che il nuovo “industry standard” sia fregarsene del proprio aspetto convinte di essere le prime nella storia a farlo. A me piace piacere, mi piacciono i vestiti, adoro essere guardata e mi piace essere bella a prescindere dalle pressioni esterne: questa è una conquista ed è una conquista che anche il marketing ha capito abbastanza bene, altrimenti campagne come “Per una bellezza autentica” di Dove sarebbero rimaste nei cassetti invece di vendere più creme e deodoranti (perché essere autentiche vuol dire anche puzzare).
Se qualcuno mi avesse insegnato che prendersi cura di sé per stare bene fisicamente (e quindi mangiare bene, capire le reazioni del proprio corpo, trovare lo sport che ti rende felice) è anche la chiave per essere più bella avrei evitato di perdere così tanto tempo con diete cretine (ingozzarmi incluso), salute altalenante e tanta, troppa sofferenza. Ho dovuto impararlo da sola e non venitemi a dire che oggi è peggio di ieri, in particolare peggio degli anni ’80, perché come disse uno a cui non piacevo molto “questa con un calcio ti ammazza”.
Grazie -che altro dire.