Nel marzo 2001 scrivevo
non si può non fermarsi un attimo a riflettere e chiedersi perché Jim e Dan, come Paolo e Andrea, come Espresso e Mondadori, come Luca e Alberto, dovrebbero regalare il loro lavoro a tutti noi
Sono passati più di dieci anni ma chiedere di pagare per un servizio online – per non parlare dei contenuti – è ancora considerata una pretesa assurda, una violazione di un patto di generosità che ha senso quando è tra persone, non tra persone e aziende che hanno dei costi altissimi per fornire un servizio. Io pago volentieri, quando qualcuno mi vende quello che uso, e non solo perché lo ritengo giusto, ma anche perché, come diceva lo Zampetti «pago, pretendo».
Pretendo cosa? Beh, i servizi e i contenuti gratis sono forniti «as is», il che vuol dire che se, come negli ultimi giorni, Gmail fa i capricci tu puoi solo sperare che la sistemino, anche se la usi per lavorare. Vuol dire che se tu con Twitter, Facebook, Storify ci lavori, te li prendi «as is», e se sono hai un problema non hai grandi speranze di essere aiutato velocemente, correndo rischi continui. Pretendo che se ho un problema qualcuno si incarichi di risolverlo.
Ecco, io di questo sono sempre più convinta, anche se forse è troppo tardi: anche quando paghi e non solo hai un disservizio, ma è un disservizio che crea un danno, le tue speranze di essere aiutato a risolvere il problema sono abbastanza basse. Un’agenzia per cui lavoro ha pubblicato su un notissimo social network professionale un annuncio di recruiting, il cui costo è di 172 euro: per chissà quale bug se tu lo condividi su Facebook l’annuncio viene pubblicato con il logo di un’agenzia concorrente (logo tra l’altro abbastanza sgranato, quindi un danno anche per l’altra agenzia).
Quanto tempo credete ci abbia messo il noto social network a risolvere il problema di un cliente pagante? Un’ora, un minuto, una settimana? No: il problema – segnalato il 3 ottobre – non è stato ancora risolto. È stato preso in carico dopo 72 ore con la classica richiesta di ulteriori dettagli, a cui è seguita una risposta che avvisava che serviva tempo per capire cosa stava succedendo, a cui è seguita una mail di un’agenzia, ma siamo ancora lì e nessuno ha pensato nel frattempo di scusarsi, di comunicare di aver compreso la delicatezza del problema, di restituire i soldi, di mandare dei fiori o che.
Io continuo a pensare che per tenere in piedi Internet così come la conosciamo dobbiamo abituarci a pagare per i servizi che usiamo, ma comincio a chiedermi se chi potrebbe e dovrebbe venderli ha idea di che cosa voglia dire fornire a pagamento un servizio che non può più essere«as is» ma dev’essere professionale davvero (anche quando è fornito in cambio non dei miei soldi ma dei miei dati).
Bellissimo articolo