«Writing and reading are fundamentally physical activities», scrive Tom Downey in Gone, su Medium, come «branded content» firmato Ritz-Carlton (e già questa sarebbe tutta un’altra storia). Lo dimentichiamo spesso: scrivere e leggere, di base, sono attività fisiche. Lo dimentichiamo qualunque sia la nostra posizione nella noiosissima querelle carta-bit, come se la scelta non fosse sempre e sola nostra, sia nel nostro piccolo di lettore (esperienza), sia nel nostro grande di lettori (dati). Chi vuole un futuro di libri di carta non ha che da comprarli nel presente, nessuno smetterà di produrre merci per cui c’è ancora richiesta (ma questa è ancora un’altra storia).
Lettura e scrittura, ancora prima che mentali, sono attività fisiche, dicevamo: il libro di bit è un’esperienza fisica? Certo che sì, a meno che non riceviate codice per via telepatica. Leggiamo libri di bit attraverso strumenti fatti di atomi, che siano e-reader, tablet, smartphone o monitor. Il peso, la consistenza, la reazione, i ritardi, la luminosità, la risoluzione di questi oggetti condizionano la qualità della nostra esperienza di lettura, che, come tutte le esperienze, è personale e condizionata dalle nostre abitudini. È un po’ come passare dal cambio manuale al cambio automatico, per i primi venti minuti (o le prime venti volte) bestemmi, poi ti abitui.
Da quando mi vendono i libri di bit il mio rapporto fisico con le storie è cambiato: non riesco più a leggere romanzi di carta e all’improvviso ho capito quanto era scomodo il cambio manuale, in tutto il suo romanticismo. Spigoli, pesi, segni persi, pagine che volano via, spazio occupato. Sto (ri)leggendo A che punto è la notte nell’edizione originale e miodio, mi dispiacerà finirlo perché è bellissimo ma sarà un sollievo. Contemporaneamente a questo disamoramento nei confronti del libro di carta come medium ho affinato il mio gusto e la mia attenzione per il libro di carta come oggetto: non posso più tollerare la bruttezza, che sia la carta, la copertina, l’edizione, il font. Continuo a comprare romanzi di carta solo se bellissimi o se ancora non disponibili in digitale (in questo caso bestemmio un po’).
Completamente diversa la mia esperienza per i saggi, ma anche qui il motivo è fisico, non mentale. Leggo romanzi sdraiata o almeno stravaccata, i saggi invece io li leggo seduta, se possibile a un tavolo. Non è lettura, è studio e io per studiare devo stare dritta. Visto che le funzionalità di studio dei bit sono superiori (ricerca, sottolineatura, possibilità di avere tanti testi sottomano) questo significa che i saggi per me importanti (per fortuna pochi) li compro di carta e di bit. Avete mai provato a leggere su un e-reader appoggiato a un tavolo? Un’esperienza sgradevole, un po’ come leggere a monitor, ma anche qui per me – PER ME – c’entra molto poco la risoluzione o il contesto, è che per leggere io devo guardare in basso, non davanti a me. C’è qualcuno interessato a studiare la prossemica della lettura? No, perché è di questo che stiamo parlando.
La fisicità della scrittura è ancora più importante, ma anche qui sembriamo pensare che i bit si compongano nell’etere. Io scarabocchio a penna(rello) e trovo scomodissimo farlo su tablet. A penna prendo appunti che mi servono per fissare i pensieri, sul computer appunti che devo trasformare in report o comunque rileggere. Se devo pensare prima di scrivere mi serve una tastiera in tre dimensioni da usare seduta, ma se devo cazzeggiare va benissimo pigiar tasti simbolici anche in piedi (ma mai camminando). Il pensiero creativo impone fogli grandi, la scrittura sequenziale va ovunque (ma l’ideale è testo nero su sfondo bianco). E scriverò sempre più parlando (che è diverso da dettare), come in HER. Qualcuno è disposto a sostenere che parlare non è un’attività fisica?
Per tornare al post di partenza: qualunque libreria capisca che la fisicità di lettura e scrittura ha a che fare anche con le parole di bit sarà ancora più bella e accogliente della già notevolissima Tsutaya raccontata nel post. Basti pensare che McNally Jackson, non esattamente una libreria per nerd, mette in vetrina una stampante per il print on demand: c’è qualcosa di più fisico (e di meno convenzionale) di farsi un libro con le proprie mani? Ne parleremo lunedì con Gabriele Ferraresi, l’artefice di Sette (gallizio editore): seguiteci su Twitter, poi se viene bene lo rifacciamo anche in pubblico.
[…] nell’arco di una giornata, cambia a seconda del tipo di pensiero. Io per quanto ci provi non riesco ancora ad abituarmi a scrivere parlando, per esempio: in teoria è una grandissima comodità, in pratica, per me, è una montagna da […]