Sono molto curiosa di leggere il nuovo libro di Massimo Mantellini perché, fin dalla descrizione, mi sembra una perfetta sintesi di un modo di pensare all’innovazione in forte contrasto con il mio, e per questo utile per un confronto che, nella mia testa, va avanti da vent’anni.
Mi sono trovata spesso a leggere persone deluse dai cambiamenti che i media digitali hanno portato nel mondo, a volte li immagino come genitori incapaci di accettare che quel frugoletto così delizioso non sia venuto fuori esattamente come tu avresti desiderato. Una Internet sdraiata, se vista con gli occhi di chi pensava che uno strumento potesse cambiare il mondo da solo.
Io ho sempre trovato questa visione limpidamente riduzionista, e quindi sbagliata: magari questo o quello strumento potrebbero davvero cambiare tutto, ma se lo dai in mano a persone simili a prima non puoi aspettarti un vero cambiamento. Non in un paio di generazioni, almeno. Forse neanche in dieci.
Ho sempre trovato anche tremenda la nostalgia della rete di un tempo, quella in cui ci si conosceva più o meno tutti, si era tra pari, ci si capiva. Oh, io c’ero. Non nella primissima ondata, quella delle università, ma nella seconda, quella di metà degli anni ’90, con VideoOnLine. Era una rete tremendamente elitaria. Era popolata da persone che avrebbero fatto di tutto per ritardare l’arrivo dei diversi da loro. Da persone che hanno fatto di tutto, in realtà, per ritardare l’arrivo di persone come me o come te. Nel 1996, al mio esordio nella rete sociale, e non di sola consultazione, ho fatto amicizia con Massimo Mantellini, che era una delle poche persone che, pur patendomi, si comportava gentilmente. Ero una ragazza. Una ragazza di cultura umanistica e non scientifica. Una ragazza di cultura umanistica che lavorava nella pubblicità. Non c’entravo niente, non ero desiderata, ero imbranata e fuori posto ed era una rete già estremamente litigiosa: non è stato piacevole né divertente. Sono rimasta solo perché ho trovato un newsgroup di cinema, altrettanto litigioso, ma lì almeno la mia cultura aveva un senso.
Il terrore degli abitanti della rete negli anni ’90 era l’arrivo in massa dei newbie e i fatti hanno dato loro ragione: l’arrivo in massa dei newbie ha reso Internet molto simile alla televisione, come dice Hossein Derakhshan (dimenticando che in televisione c’è qualcuno che decide chi può andarci). Una calamità che neanche le sette piaghe d’Egitto: bufale, violazioni della netiquette (la peggiore, mio dio: l’off topic), mancanza di rispetto delle norme di sicurezza più semplici, analfabetismo funzionale, fuffa. In una parola: l’arrivo degli utonti, di quelli che preferiscono Apple, che infatti ha conosciuto una diffusione mai sognata prima, nel mondo di quelli che vogliono poter smontare un computer.
Avevano ragione, quindi, ma avevano e hanno torto, almeno da un punto di vista progressista.
Se Internet doveva cambiare il mondo partendo da un’èlite che decideva per i più scemi, escludendoli non solo dal potere ma anche dall’accesso alle informazioni, non sarebbe cambiato niente, no? Avremmo sostituito un’élite a un’altra, come poi è successo: adesso mezzo mondo è in mano a una tecnocrazia, solo che è la tecnocrazia diversa da quella che ci aspettavamo. Ha vinto Apple, che vede il computer come un mezzo e non con un fine. La tecnocrazia di oggi progetta macchine chiuse, ma con servizi e interfacce adatti a chi non ha una cultura informatica o scientifica. Con questo approccio, improvvisamente, riempi le piazze digitali. Rimuovi le barriere all’accesso e le persone entrano: chi l’avrebbe mai detto?
E qui torniamo al libro di Mante, dove mi aspetto di trovare il racconto della “riduzione delle nostre aspettative”, riduzione che io non trovo in nessuno al di fuori di quella cerchia di persone che avevano paura che arrivassero i niubbi. Persone convinte che ci fosse un modo giusto di usare la rete e che se le persone non lo capivano andava spiegato meglio, più forte, più a lungo. E invece i nuovi player – quelli che adesso amiamo biasimare per aver rovinato tutto – hanno reso accessibili alcune caratteristiche dei media digitali che prima erano difficili da vedere per i non iniziati. Libertà di parola (che vuol dire anche libertà di cazzata), libertà di pubblicazione (qualunque cosa, anche le cazzate, anche le bufale), libertà di comunicazione e informazione (e quindi un cantante o un autore può raggiungere più persone delle riviste che dovrebbero parlarne, o un gino qualsiasi conquistarsi un pubblico più fedele di quanto persone pagate per farlo possano sognare) abbassamento dei prezzi (non paghiamo più le telefonate o i conti in banca, troviamo facilmente il prezzo migliore, paghiamo il denaro molto, molto poco) e intrattenimento a bassissimo costo. È un processo in corso, un piccolissimo cambiamento nella storia del pianeta, perché abbiamo appena iniziato, e come in tutti i processi di innovazione siamo nella fase del peggioramento, ben nota a chiunque provi a cambiare qualcosa. Sono libertà a cui non siamo abituati, che usiamo male, malissimo, ma che impareremo a usare, se non ci boicottiamo nel mezzo. Io continuo a pensare che i vantaggi siano superiori agli svantaggi e che se rinunciassimo all’idea che una rete giusta è solo la rete che avevamo immaginato potremmo davvero cominciare a costruire qualcosa, cioè una società che non viene miracolata dall’accesso a uno strumento, ma lo usa anche per migliorare. Non tutti, non subito, non per forza. Continuare a pensare che sia già tutto finito, però, ci farà finire male per davvero. Siamo all’inizio di una storia, non alla fine di un’epoca e, a proposito di libri, non vedo l’ora che esca il nuovo lavoro di Steven Pinker, Enlightenment Now: The Case for Reason, Science, Humanism, and Progress. È molto facile cadere nella retorica del “va tutto male, è tutto finito”. È utile a molti, ma certo non a noi.
Molto interessante, come (quasi) tutto quello che scrivi quando sei pacata :)
Dunque: i nuovi player, quelli che “hanno reso accessibili alcune caratteristiche dei media digitali” sono in diritto, o in dovere, a, ancora, saranno capaci di “educare”, guidare, l’utente oppure ci dobbiamo aspettare una resilienza (non vedevo l’ora di usarla, questa parola :) naturale e necessariamente lenta?