Non di soli influencer si vive in rete

Torniamo ai fondamentali: le reti non sono democratiche, i nodi non sono tutti uguali, le reti non sono solo digitali. Viviamo in una società digitalizzata, che permette al talento di incontrare il suo pubblico. Quando c'è.

La più grande differenza tra mass media e social media è che i primi sono prodotti da professionisti organizzati in aziende editoriali che hanno come obiettivo il profitto, i secondi sono prodotti da individui che spesso di lavoro fanno altro e che hanno come primo obiettivo il loro personale piacere. A volte un individuo attivo nei social network arriva a produrre un valore editoriale (lo chiamiamo influencer), che si concretizza in vendita di spazi pubblicitari (diretta o tramite le piattaforme su cui pubblica) e che a volte uccide il piacere e quindi, alla lunga, anche il profitto (quegli spazi hanno un valore economico perché le persone hanno scelto di seguire una persona appassionata e non un professionista dell’informazione).

Fuorviati da questi casi, molto rari (anche se molto visibili) dimentichiamo che nella stragrande maggioranza dei casi i contenuti pubblicati in rete non hanno altro obiettivo che il piacere di chi li pubblica, piacere a volte amplificato dal riconoscimento non solo di amici, cugini e colleghi (il pubblico a cui potevamo aspirare un tempo), ma di sconosciuti che ci leggono, ascoltano, commentano, magari diventando nel tempo amici o sostenitori (anche in senso economico). È così che i network (persone) producono media (contenuti).

Questo riconoscimento a volte raggiunge numeri superiori a quelli possibili seguendo la trafila dell’editoria professionale, che prevede, pensando per esempio ai libri:

  1. la valutazione di un progetto basata sul passato e non sul futuro
  2. un lavoro di messa a punto che coinvolge molte persone e professionalità diverse (con l’autore, soprattutto se esordiente, con poca voce in capitolo)
  3. un prodotto finito di qualità industriale (a volte è una buona notizia, a volte meno)
  4. una distribuzione in libreria casuale a dir poco
  5. spazi promozionali (spesso non percepiti come tali, come ad esempio le vetrine delle catene di librerie) solo se vendi già
  6. presentazioni e incontri che spesso dipendono dall’interesse dei librai e dalla tua disponibilità di tempo, energie e a volte anche soldi (per gli spostamenti)

Questa trafila, adatta al mercato del secolo scorso, oggi non funziona più. Va aggiornata, non sostituita: oggi dovremmo partire dalla fine, cioè sperimentare sui social media per trovare un’audience interessata, verificare che un libro sia il formato migliore per raggiungerla, partire dagli incontri e, pensando a Kickstarter, dalla pre-vendita. Dovremmo cioè produrre un oggetto solo quando ha già un mercato, ma non perché in passato oggetti simili hanno venduto, ma perché ci sono persone che si sono dimostrate molto interessate all’argomento e allo stile. La rete come focus group emergente, se sai leggerla.

Il paradosso dell’editoria contemporanea

È per questo che siamo arrivati a un apparente paradosso: libri che vendono perché l’autore ha già un suo pubblico, con l’editoria che ha di fatto rinunciato alla capacità di trovare un pubblico a un autore che ha qualcosa da dire. E non vale solo per i libri. Di base, oggi, chi cerca un datore di lavoro (e non direttamente un pubblico) viene stritolato da un meccanismo che massifica il suo lavoro e ne riduce il valore economico sotto una soglia così bassa che forse costa di più lavorare che stare fermi (toh, i neet).

Non è un fenomeno del tutto nuovo: molti autori del passato applicavano quella che Nassim Taleb in AntiFragile chiama la legge del bilanciere, cioè un reddito sufficiente proveniente da un lavoro a bassa intensità, di quello che dimentichi un secondo dopo aver finito, lasciandoti energie intellettuali intatte per il tuo vero lavoro, scrivere, che non produce reddito. «Fatti due carriere, una a bassa soddisfazione e una che ami. Fai il contabile e scrivi un romanzo. Come Primo Levi».

I modelli di business

Oggi il bilanciere può prendere una forma diversa. Fai quello che più ami per la maggior parte del tempo e impiega il 10% del tuo tempo per farlo rendere, approfittando del fatto che non viviamo più in una società massificata. Per farlo rendere (e quindi vivere del tuo lavoro) hai quattro modelli di business possibili:

  • come influencer puoi vendere alle aziende la tua capacità di creare un desiderio mimetico e di  dare consigli richiesti e seguiti, esattamente come fanno i giornali (ti serve un’audience numerosa e capacità di negoziazione)
  • come content creator / marketer puoi regalare il tuo know how per vendere prodotti (più è grande la tua audience più prodotti vendi, sempre che siano in linea con il tuo know how)
  • come professionista puoi regalare il tuo know how per vendere servizi (ti basta una piccola audience, ma devi essere molto bravo nel tuo lavoro)
  • come autore puoi creare contenuti interessanti per un numero abbastanza alto di persone disposte a pagarlo, aziende comprese (ti basta un’audience media o anche piccola, serve capacità di produzione, anche in squadra)

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Ogni modello di business ha metriche diverse: il primo caso assomiglia molto all’editoria tradizionale, perché la metrica più rilevante è il costo contatto, l’ultimo caso è spesso fuorviante, perché non è affatto detto che un professionista molto seguito guadagni in proporzione (spesso vale il contrario, più è ridotta la tua audience, più sale il tuo costo orario, perché tenendo molto alta la specificità dei contenuti raggiungi quasi solo le persone disposte a comprare la tua competenza).

Io a volte lavoro come influencer, più spesso da content creator (comprendendo anche la formazione e il public speaking), ma l’80% del mio fatturato è nel terzo quadrante: io aiuto gli altri a raggiungere il loro pubblico, perché è quello che sono brava a fare. Puoi giocare bene in tutti i quadranti? Secondo me no.

Guadagnarsi da vivere in rete oggi

Ecco: quello che a mio parere manca, ogni volta che denunciamo la difficoltà di guadagnarsi da vivere producendo informazione, musica, letteratura, saggistica o intrattenimento, è la comprensione della differenza nel progettare e cercare di vendere il prodotto del nostro talento in una società massificata o in una società a rete.

Regola 1: la nicchia

La prima, fondamentale differenza è che in una società a rete noi abbiamo successo (e monetizzazione del successo) quando ci dedichiamo alla soddisfazione di una nicchia, anche molto piccola.
Questo è evidente se guardiamo al mercato pubblicitario: gli editori tradizionali vendono a volume, gli editori digitali vendono a risultato. Facebook ha due miliardi di iscritti attivi (e quindi raggiungibili), ma nessuno compra un pubblico di due miliardi di persone. Ci sono milioni di aziende che comprano migliaia di pubblici composti da milioni di persone (ma a volte anche da poche centinaia). Idem Google, che per primo ha impostato la vendita di pubblicità con un sistema di aste basato sul valore di una parola chiave, cioè l’espressione di una nicchia molto interessata a un determinato argomento. Gli editori tradizionali non hanno voluto capire questo meccanismo o non hanno saputo sviluppare l’infrastruttura tecnologica per vendere inserzioni mirate a un pubblico specializzato, non massificato. O entrambe le cose.
Non vale solo per la pubblicità, vale anche per i progetti editoriali. La chiave non è piacere a molti, la chiave è piacere molto a un numero sufficiente di persone. Le nicchie sono più piccole della massa, non sono piccole in sé. La passione per l’uso corretto della propria lingua madre, in quasi tutte le lingue madri, è una nicchia molto produttiva e che contiene milioni di persone. Prova a vedere il pubblico di Grammarly su Facebook, delle lezioni di Alessandro Barbero in podcast o a cercare su Google il “porn” inteso come fissazione per argomenti come la scienza o i rifugi. Chi avrebbe mai pensato che si potessero vendere libri basati sull’ignoranza medico-scientifica degli altri?

Regola 2: la coopetition

La seconda differenza è che, in una società a rete, in una nicchia anche piccola c’è spazio per una moltitudine di voci diverse. Un programma televisivo costa molto, sia all’editore sia allo spettatore, che deve allocare una quantità di tempo e di attenzione per seguirlo. Un progetto editoriale che tratta lo stesso argomento (mettiamo: la divulgazione della scienza) costa molto meno mantenendo la qualità elevata (ricordate: la passione!) e permette allo spettatore una fruizione personalizzata anche nei tempi e nei formati (un bravo autore digitale combina scrittura, fotografia, uso del video, racconto orale e conversazione). Questo comporta la possibilità di emergere (e di produrre reddito) per molte più persone, la moltiplicazione dei punti di vista, la possibilità di arrivare ultimi e comunque conquistarsi uno spazio lavorando sulla propria capacità di interessare un pubblico con uno stile personale (di nuovo: la passione). Un errore che viene fatto spesso è confondere la maturità di uno strumento (per esempio: il podcast) con la sua saturazione. In una società a rete la saturazione è praticamente impossibile, perché nessuno vede le stesse cose. Il successo di Alessandro Barbero in una società di massa era una condanna per tutti gli altri storici (c’è già Barbero!), in una società a rete è un via libera per chiunque sia capace di raccontare la storia in modo appassionante (e qui casca l’asino: non è il pubblico a mancare, è il talento).

Regola 3: sporcarsi le mani

La terza differenza è che gli autori nati e cresciuti in una società di massa vogliono vendere il loro lavoro ad aziende che fanno il lavoro sporco, cioè industrializzare il talento e vendere al pubblico e agli inserzionisti. Gli autori che vogliono veder riconosciuto il valore economico del loro lavoro oggi invece possono (e quindi devono) coordinare il lavoro necessario per trasformare una buona idea in un buon prodotto editoriale e vendere direttamente al loro pubblico, meglio se imparando a vedere il crowdfunding non come un’elemosina ma come una prevendita, quale è. Qual è la differenza tra un influencer e un autore? L’influencer vende spazi pubblicitari (chiamati branded content), l’autore vende i suoi contenuti.

Condannati ad autopubblicarci?

Quindi in futuro l’unica speranza di guadagnare facendo un lavoro intellettuale è l’autopubblicazione? No, per niente. Nel brevissimo periodo è la strada migliore, nel medio/lungo possiamo contare sul fatto che sempre più imprenditori capiscano come giocare su più tavoli piccoli facendo un fatturato superiore di quando giochi su un unico tavolo grande (la coda lunga). Prendi ad esempio la testata olandese Flow, che ha anche un’edizione internazionale: è la passione per gli argomenti trattati della sua ideatrice/fondatrice, condivisa dalla redazione, a rendere sostenibile un giornale cartaceo senza pubblicità, venduto a caro prezzo. Passione che si concretizza in scelte editoriali che sono di grande valore per un numero sufficiente di lettori (che pagano un prezzo a copia alto), non per tutti.
Lo abbiamo detto e letto tante volte: non è il giornalismo in crisi, è l’editoria. E non è una crisi destinata a durare o a finire male: anche in Italia abbiamo tanti editori sani (e ne avremo ancora di più), sono quelli che hanno capito che le dinamiche di rete funzionano anche in positivo, basta partire piccoli, da una nicchia, sperimentando in modo da essere pronti a raccogliere i frutti di un rischio accettabile: se va male rientri dei costi, se va bene pubblichi L’amica geniale. O Haruf. O The Passenger.

Un altro modo per dire la stessa cosa

Torniamo ai fondamentali (cioè a Link di Barabasi): le reti non sono democratiche, i nodi non sono tutti uguali. Tendiamo a seguire i nodi più sviluppati (preferential attachment), a meno che non emerga un nodo migliore (fitness), che emerge senza che qualcuno (un editore) gli dia il permesso di farlo. Nelle reti winner takes it all, ma se all è una nicchia, molti winner sono possibili, perché ci sono tante all, tutte diverse (le community, che è un altro modo di dire nicchia, hanno interessi e gusti specifici). Oggi a rete è la società, non solo Internet. Indovinare la community oggi è come indovinare la massa ieri, perché i valori assoluti sono distribuiti in modo più ampio.
Se almeno nella fase di ideazione/progettazione non si ragiona per community non c’è neanche fitness e restiamo confinati nella produzione per le masse che oggi, qualunque sia il medium di destinazione, non funziona più: nessuno di noi oggi si sente medio, o mediocre che dir si voglia.

(Questo post raccoglie un mese di idee, spunti, ragionamenti e anche fastidi raccolti partecipando al Festival del Giornalismo Culturale, Raccolti, Artigiani delle Parole e Slow News Day)