Il 4 ottobre 2020 ho chiesto aiuto alla mia rete su Facebook per sbloccare un capitolo di Libera il futuro che proprio non funzionava.
Sto scrivendo un libro che vuole essere un ponte tra la cultura digitale utile e la vita quotidiana e mi sto scontrando con la difficoltà di definire gli hacker non tecnicamente ma pragmaticamente, cioè descrivendo cosa li spinge, cosa li muove.
Chi mi aiuta con una definizione che non giudichi, neanche in positivo?
Pubblico il capitolo che ne è venuto fuori come ringraziamento per tutti quelli (tanti) che non ho potuto citare e perché, a oggi, rimane la parte di cui sono più soddisfatta.
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Che cos’hanno in comune artigiani, bricoleur, ingegneri, ricercatori e designer? Sono tutti animati dalla necessità di capire come funzionano le cose, necessità che per Aaron Brancotti è anche la chiave per capire lo spirito degli hacker. Hacker ovvero “artigiani del digitale” per Monica Borca, anche se etimologicamente sono “persone che fanno le cose a pezzi con un’ascia”, come ricorda Stefano Godio. Forse l’immagine più precisa è quella di chi si apre una strada nella foresta, perché l’obiettivo è aprirsi una strada, non distruggere la foresta. Una storia che inizia, nel racconto di Lorenzo Fantoni in Vivere Mille vite, con il «Tech Model Railroad Club dell’MIT, un club studentesco inizialmente dedicato alla costruzione di un enorme diorama per treni giocattolo chiamato Il Sistema», club dove «i più attivi con i computer erano i ragazzi deputati alla creazione di scambi ferroviari, circuiti elettrici, passaggi a livello e tutto ciò che stava dietro le quinte del modellino». Era la fine degli anni ’50 e il motto del Club era Hands on, sporcati le mani. Oggi succede qualcosa di simile su IkeaHackers, che raccoglie le idee dei clienti per modificare i mobili Ikea in modo da migliorarli e adattarli alla loro casa.
Capire come funzionano le cose e poi migliorarle, spesso ignorando le regole e le convenzioni: gli hacker, secondo il critico letterario Valerio Fiandra, sono «irreparabili riparatori, con la motivazione bambinesca e impareggiabile di chi vuol smontare per rimontare. Roba da orologiai, da miniaturisti, da artisti dell’astrazione. Con quella attrazione per il perfezionamento ma anche per lo scombussolamento (riordinare, ricombinare) che solo una purissima ossessione innaffia».
Capire l’hacking, che prima di essere un’abilità è una propensione, è il passaggio centrale per vivere il mondo digitalizzato come un accrescimento delle nostre possibilità e non come un limite deciso da altri.
Per Pekka Himanen (finlandese come Stefano Godio), autore di L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione, essere un hacker vuol dire vivere secondo sette principi:
- la passione
- la libertà
- l’importanza per la società
- l’apertura
- l’azione
- il prendersi cura
- la creatività
Per riuscire a spiegare chi sono davvero gli hacker e perché ha senso, oggi, portare lo spirito hacker nel nostro quotidiano ho chiesto aiuto alla mia rete su Facebook, ricevendo tantissime risposte. Le persone che cito hanno culture e provenienze diverse – programmatori, critici letterari, analisti, sociologi – e, come spesso capita in rete, si fanno strada non solo in base a quello che fanno, ma a quello che sanno. Raccogliere definizioni con un post su Facebook è il modo giusto per spiegare in un libro una filosofia e una pratica tanto affascinante quanto fraintesa come l’hacking? No, è uno dei tanti modi giusti ed è il mio preferito: quello che ho appreso dagli hacker è che non c’è soddisfazione più grande, quando hai imparato a fare qualcosa, di provare a rifarla mettendoci qualcosa di tuo, perché non esiste un solo modo giusto. Anche per questo è difficile trovare un accordo su cosa sia veramente un hacker, e questa difficoltà di arrivare a un consenso è uno dei tanti aspetti del digital mindset che manda in crisi chi ha bisogno di certezze. Per me è una ricchezza e come tale la propongo qui, estendendo la nozione di hack, ad altri mondi, più nostri. Per Antonella La Carpia «un tempo c’erano i contadini che studiavano i meccanismi delle piante per evolvere la loro produttività e proteggere il loro ecosistema da qualsiasi minaccia. Gli hacker sono un po’ la stessa cosa solo che coltivano algoritmi e codici» e Sonia Montegiove rincara con: «Sono le persone curiose, un po’ geniali, che vedono i limiti come sfide da superare. Sono i nuovi “zii strani” che smontavano i primi elettrodomestici per capire come funzionavano, riusavano e assemblavano pezzi per costruire oggetti utili che non potevano permettersi». Per Luca Talamazzi, invece, per capire gli hacker bisogna guardare l’animale più amato sui social media, perché «i gatti esprimono naturalmente l’attitudine hacker. Chiudigli una porta, rendigli inaccessibile uno spazio e loro faranno di tutto per entrarci o uscire, dagli uno scatolone e cercheranno di guardarci dentro».
«È un hacker o ha un comportamento da hacker chi modifica qualcosa (non necessariamente digitale) per migliorarlo, sondarne i limiti o adattarlo a utilizzi che trascendono quelli per cui è stato originariamente progettato», sintetizza Massimiliano Maria Longo, e Laura Boero aggiunge un dettaglio fondamentale: «La competenza è alla base, non si diventa hacker se non si è veramente competenti», anche se è una competenza raramente certificata da scuole, diplomi e lauree.
C’è una cosa su cui siamo tutti più competenti di chiunque altro: la nostra vita, la nostra casa, un libro, il modo in cui lavoriamo. Se non c’è competenza, cultura, esperienza non è hacking, è solo vanagloria. Per questo siamo partiti da una mappa: hackerare il nostro quotidiano implica una conoscenza attenta e profonda, senza nasconderci nulla, entrando nelle pieghe del nostro sistema operativo. E serve un altro ingrediente, ricordato da Simone Martelli: la curiosità.
Per me artigiani, bricoleur, designer e hacker hanno in comune anche un’altra cosa: fare qualcosa da sé aiuta a entrare in uno stato sospeso e felice, definito “flusso” dallo psicologo Mihály Csíkszentmihályi. Il flusso è immergerti così in profondità in quello che fai da non sentire più la fatica o l’impegno, ma solo il puro piacere del presente. Capita spesso agli sportivi, ma sono sicura che capiti a tutti noi quando facciamo quello che ci piace oppure quando mettiamo del nostro in quello che facciamo, cioè quando passiamo dalla modalità convenzionale alla modalità progettuale. Succede perché non esiste un solo modo giusto per fare qualcosa, e quando troviamo il nostro modo è bellissimo in sé, a prescindere dal risultato.
Per prosperare in una società digitalizzata dobbiamo mettere in discussione tutto quello che sappiamo, tutto quello in cui crediamo, tutto quello che ci hanno insegnato. Poi ognuno sceglie la sua ascia: chi la penna, chi il mouse, chi la macchina fotografica, chi le mani. Alla base di tutto, però, non c’è l’obiettivo da raggiungere, ma il piacere dell’esperienza, come ricorda Fabio Turel, che scrive: «Il piacere (e la capacità) di escogitare un’alternativa non prevista, non pianificata, possibilmente “brillante” in quanto stupefacente sono secondo me le caratteristiche che definiscono la cosa (cioè l’hacking)». Piacere che può bastare in sé, che tu stia lavorando su un software, a un risotto o al modo migliore per sistemare i libri in casa.