La voce della scrittura digitale

Ogni giorno 14 20 milioni di italiani entrano in Facebook e passano la giornata con i loro amici, scrivendo e leggendo; metà di loro lo fa dal cellulare, mentre è in coda, in metropolitana, in riunione, camminando, a tavola con altre persone, in ascensore.

Ci scambiamo migliaia di mail e, nel mondo, vengono pubblicati migliaia di post sui blog e circa 250 400 milioni di tweet. Al giorno. All’improvviso scriviamo tutti, perché è così che ci si manifesta in rete, perché smartphone e computer sono prima di tutto macchine per scrivere con biblioteca incorporata. Scriviamo tanto, scriviamo male, raccontiamo cose che interessano solo ai nostri cinque amici, però lo facciamo per iscritto. Chi non lo fa è rimproverato di “analfabetismo digitale”, ma il timore è che sia un problema più che altro di afasia o di snobismo, perché il rifiuto di partecipare a una qualunque delle conversazioni pubbliche in corso non ha niente a che fare con la tecnologia.

Li chiamiamo social media perché tali sono: media, per l’appunto, media creati da noi e dai nostri amici e non da professionisti pagati per farlo, che si occupano e continueranno a farlo dei media di massa, pur con tutte le contaminazioni del caso. Twitter, Facebook, i blog personali & co sono media perché pochi scrivono (e pochissimi scrivono cose interessanti) e molti, moltissimi leggono. Ecco perché i dati citati prima, per quanto interessanti, descrivono comunque solo parzialmente quello che sta succedendo, perché ci raccontano quanti scrivono, non quanti leggono.

Eppure secondo Forrester Research il 52% degli italiani che usano Internet si definiscono “spettatori” dei social media: sono il pubblico, un pubblico che legge e che si sta abituando a leggere in modo molto diverso dal passato, contribuendo anche solo con un like.

Sappiamo già molto di come sta cambiando la scrittura in rete, in particolare delle sue caratteristiche di oralità secondaria: si scrive spesso come si parla, in una specie di sbobinatura in tempo reale delle conversazioni che un tempo restavamo tra quattro mura. Non è emersa ancora una vera narrativa nativa digitale, ma in tutto il mondo, Italia compresa, si moltiplicano i reading: gli autori emergenti in Rete – Azael, Guido Catalano, Carmine Mangone e il gruppo Barabba – sono voci che portano in giro sul palco le parole nate digitali.

Un interessante ritorno all’antico, a un tempo in cui una storia si viveva con gli occhi e con le orecchie, non leggendola a mente: la si guardava rappresentata in teatro, si ascoltava un narratore o la propria voce che leggeva a sé o agli altri la scriptura continua, senza spazi tra le parole e punteggiatura.

Scriviamo e leggiamo scomodi, di corsa, in piedi, nascondendoci dai colleghi, con continue interruzioni: è per questo che il lettore nativo digitale è un lettore velocissimo, spesso indifferente alla fonte, abituato a combinare a modo suo frammenti brevissimi (i tweet, lo ricordiamo, sono testi di 140 caratteri), a scorrere i grassetti, a mettere insieme informazioni ricevute da amici, colleghi, giornalisti e autori in un pot pourri che da un lato può terrorizzare, dall’altro, assumendo una prospettiva neutra, ci aiuta a immaginare il cambiamento prossimo venturo della cultura e della narrativa, quel cambiamento prefigurato da anni come una combinazione finora inedita di lettura e scrittura.
Chi teme questo cambiamento ignora la storia, perché la storia della lettura non nasce con il libro e certo non finirà con lui: l’artefatto prezioso sono le storie e i mondi che creano, non un insieme di fogli stampati e rilegati perfetti per i ritmi lunghi del secolo scorso. Identificare la narrativa con il libro è un anacronismo: immergersi in una storia prende i connotati del tempo in cui questa nasce, non del supporto su cui finisce.

Troppo occupati a confondere la fine di un mercato con la fine della cultura non ci accorgiamo che quello che ci spaventa non è la fine delle storie, ma un mondo in cui tutte le storie sono online e sta a noi farci strada per trovare e seguire quelle che ci piacciono e, se non le troviamo, scrivere le nostre. Storie pensate per insinuarsi nelle micropause, dal ritmo e dall’impegno paragonabile ai 45 minuti circa delle puntate dei serial televisivi o ai paragrafi corti, cortissimi di molti bestseller.
Jeffrey Eugenides nel suo «La trama del matrimonio» fa dire a un personaggio – il Professor Saunders della Brown University – che il romanzo è stato ucciso dal divorzio: in un mondo in cui una relazione può essere interrotta non c’è più posto non solo per il lieto fine, ma proprio per la parola fine.

Sono i tempi del flusso e del continuo, tempi molto interessanti per chi sa raccontare storie, per gli editori capace di interpretarli e soprattutto per noi che amiamo leggere. E scrivere.

(Pubblicato un anno fa sul blog di Vanity Fair)