La fine delle fini

Duole dirlo, perché come molti gli sono assai affezionata, ma il vecchio Holden Caufield aveva preso un grosso granchio con la storia dei libri. È vero che:

Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.

Ma non è Salinger che ti viene voglia di avere come amico una volta finito, è Holden stesso. Io non voglio andare a letto con Stephen King, ma con Roland di Gilead, così come non voglio girare per la Bari notturna con Gianrico Carofiglio, ma con Guido Guerrieri e non voglio conoscere meglio Diego De Silva, ma l’avvocato Malinconico sì, eccome.

Lo scrive anche Sandra Bardotti parlando del nuovo libro “I dispiaceri del vero poliziotto” di Roberto Bolaño:

Il sogno di ogni vero lettore, allorché, terminato un romanzo, sente nascere in sé una nostalgia acuta per i personaggi che ha appena abbandonato, è che prima o poi gli dicano: ecco un libro in cui ne ritroverai alcuni, di quei personaggi, e ti verranno narrate altre vicende che li riguardano.

È sempre stato così? Da quando e da quanto tempo gli scrittori si scambiano i personaggi, come fanno per esempio Bret Easton Ellis e Jay McInermey con Alison Poole? Da quando e da quanto tempo gli scrittori soffrono i limiti del numero di pagine per poter costruire la vera storia che hanno in testa e che devono a tutti i costi raccontare, come King che ha aspettato tutta la vita per pubblicare 22/11/63 e mettere insieme IT e Lee Harvey Oswald, Derry e Dallas?

Quando io e Filippo (aka gallizio) diciamo che i cambiamenti nel modo di raccontare le storie sono indifferenti al supporto non vogliamo, come penso che molti credano, difendere quello che sembra essere oggi il nostro supporto preferito (i bit) a scapito del supporto che molti sembrano identificare con la cultura (la carta).

Il nostro modo di raccontare e di immergerci in una storia è già cambiato ed è cambiato offline prima che online, è cambiato ancora prima che nascesse la sola idea di un «online», perché le uniche tecnologie che adottiamo sono quelle di cui abbiamo sentito il bisogno prima che esistessero. Come scrivevo ne La voce della scrittura digitale, abbiamo cambiato ritmo e scegliamo sempre di più «storie pensate per insinuarsi nelle micropause, dal ritmo e dall’impegno paragonabile ai 45 minuti circa delle puntate dei serial televisivi».

Scegliamo storie che non finiscano, anzi, storie che non iniziano e non finiscono, come molti videogiochi, come i prequel e i sequel, come le saghe fantasy, come le serie televisive, appunto: mondi in cui entrare e da abitare, da personalizzare e in cui scegliere che ruolo giocare.

Le storie sono sempre state infinite e abbiamo dovuto inventare il «c’era una volta» e il «the end» perché i mezzi per raccontarle infiniti non erano: non lo era la voce umana, il fuoco intorno al quale raccogliersi, le pergamene, la carta e la pellicola cinematografica. Una storia – qualunque storia – non può che iniziare omericamente «nel mezzo delle cose», perché ogni storia ha un prima e un dopo. Più che di finali abbiamo bisogno di climax e anticlimax e le narrazioni contemporanee rispondono a questo bisogno, relegando sempre di più il romanzo classico in una nicchia.

Adesso che abbiamo un medium infinito per natura stiamo imparando da Sherazade a narrare storie che non muoiano (per non morire), storie con cui ci conquistiamo il domani ogni volta che ci entriamo dentro e da cui giocoforza non vogliamo mai uscire, perché come dice Jane McGonigal «reality is broken» e riscriverla e reinventarla è l’unico modo per sopravvivere al game over, forse l’unica vera religione rimastaci.

(Pubblicato un anno fa sul blog di Vanity Fair)