Internet è stata progettata, pensata, poi vissuta e alimentata a lungo dai tecnici, quindi dagli ingegneri che l’hanno creata, dagli informatici, dai ricercatori, con una fortissima impronta scientifica. Era una comunità che condivideva un linguaggio da iniziati e quando è arrivata al grande pubblico questo linguaggio da iniziati è stato la prima barriera che ha colpito il resto del mondo, al punto da attribuirlo al mezzo e non alle persone che lo usavano.
Ancora oggi tendiamo a pensare che il linguaggio di internet – cioè quello usato dalle persone che la abitano – sia il linguaggio della tecnologia – cioè quello usato dalle persone che la fanno funzionare.
E così facciamo un po’ l’errore che fanno le prozie, quando cercano di parlare come il nipote, cioè cercano di parlare come il ragazzetto, usando il linguaggio dei ragazzi, dei giovani.
I ragazzi non parlano assolutamente di internet, la considerano, appunto, parte della loro esperienza quotidiana. Non usano le parole tecniche, non parlano di community, di social, di gamification, di storytelling: usano [internet] e basta, non ne parlano, non se ne rendono conto, oppure quando le scoprono (Nota del 2019: per esempio, giocando a Fortnite) le considerano parole del gioco, facendole proprie.
Il linguaggio della rete non esiste
Quello che noi crediamo di sapere del linguaggio di Internet, quello su cui ci scontriamo quando cerchiamo di usarlo professionalmente, è, di solito, un po’ ingenuo.
La cosa più importante in questo momento è accettare il fatto che miliardi di persone stanno usando questo medium, che è un medium “di media”, cioè un medium che ne contiene mille altri, quindi ha, per definizione, tantissimi linguaggi: linguaggio scritto, che è ancora molto importante (anche se pesando meno in byte viene regolarmente sottodimensionato), il linguaggio del video, il linguaggio delle immagini, che ancora più del video è potente ed efficace, perché non richiede traduzione.
Spesso ci preoccupiamo del fatto che sempre meno leggiamo e sempre meno capiamo quello che leggiamo, mentre forse stiamo semplicemente assistendo ad un’evoluzione umana per cui comunichiamo in estrema sintesi sempre più con le immagini e sempre meno con le parole. Potrebbe essere non un passo indietro, ma un passo avanti.
La postura della rete
Quello che usiamo in rete non è il linguaggio del computer, non è più il linguaggio del computer, [soprattutto] da quando il computer è stato messo in tasca, con l’iPhone, un po’ come Manuzio aveva fatto col libro.
I libri prima dell’invenzione dei tascabili erano oggetti che si doveva guardare da seduti: erano pesanti, grossi, scomodi. Il libro portatile, inventato da Manuzio, è lo stesso salto quantico dell’iPhone inventato da Steve Jobs, cioè qualche cosa che all’improvviso ci permette di mettere in tasca e di portarci dietro tutto il mondo che c’è in questa enorme macchina che chiamiamo Internet. E quando noi ce lo portiamo dietro, fa parte della nostra realtà, non è più una realtà separata. Improvvisamente è sempre con noi e facciamo fatica a 40 anni, a 30 – ma sicuramente non a 20 o a 15 – a vederlo come una cosa distinta. Io non credo che esistano un’identità reale e un’identità virtuale o digitale, perché sono assolutamente la stessa cosa. Chi lo pensa compie un’astrazione pericolosa, perché si ferma a un giudizio superficiale. Nel reale, come nel digitale, passa di tutto, bello e brutto: passano le stesse cose, con strumenti diversi.
Che caratteristiche ha il linguaggio contemporaneo?
Com’è questo linguaggio, quindi? Cosa facciamo quando noi, i nativi, i tardivi, immigrati, analfabeti digitali dobbiamo iniziare a parlare in questi ambienti?
È un linguaggio prima di tutto scritto. La vera grande evoluzione, il vero grande cambiamento che ci mette in difficoltà è che si tratta di un linguaggio scritto, non è un linguaggio parlato, anche se ha moltissime caratteristiche del parlato.
Lo scritto rimane (anche quando è pronunciato in un video, che infatti ha bisogno dei sottotitoli per funzionare), lo scritto va decodificato, va compreso. Lo scritto mette in mostra, mette in pubblico il linguaggio, la scelta delle parole, i riferimenti, e quindi denuncia una cultura.
Noi, scrivendo, esprimiamo non solo la personalità dell’azienda, non solo quello che cerchiamo di dire, ma soprattutto la nostra cultura.
E così spesso viene fuori che moltissime aziende, anche aziende magari totalmente consumer, sono culturalmente business-to-business, non usano il linguaggio dei loro clienti.
Il linguaggio che si deve parlare in rete – volendo dare delle indicazioni concrete – deve essere o un linguaggio di massa, estremamente chiaro, inequivocabile, quindi un linguaggio più pulito possibile, più leggero possibile, oppure, al contrario, il linguaggio delle community, quindi il linguaggio delle passioni, il linguaggio della competenza.
Quando noi parliamo il linguaggio della nostra competenza, dobbiamo sempre verificare che il nostro pubblico, il nostro interlocutore lo condivida, che questo linguaggio gli dica qualcosa, gli parli di noi, lo faccia sentire coinvolto, non allontanato.
Per chi ha familiarità con le funzioni del linguaggio di Jakobson una delle funzioni più importanti oggi è la funzione conativa, cioè la funzione di coinvolgimento del destinatario, il linguaggio calato sul destinatario e non su chi parla.
Noi aziende spesso parliamo di noi e non parliamo di “loro”. Tendiamo ancora a ragionare in termini di “noi” e “loro”, quando invece tutto lo sforzo che facciamo, usando i media digitali, dovrebbe essere quello di creare un grande “noi”, in cui le persone si sentano non semplicemente clienti o consumatori o utenti, ma parte di un grande lavoro che si fa insieme.
L’energia come metafora
L’energia, da questo punto di vista, è una metafora straordinaria, che comincia ad essere usata da qualche anno, ma si percepisce ancora la distanza per cui l’utente, il cittadino finale è qualcuno che deve essere coinvolto, deve essere avvicinato. Non ci crediamo ancora del tutto, perché, appunto, il nostro linguaggio, il linguaggio aziendale, interno, non prevede la partecipazione dei clienti.
Partecipazione che non è esplicita, non è letterale.
Quando noi diciamo di fare conversazione con i clienti, non pensiamo davvero di poter avere una relazione pubblica e continua, in tempo reale, con milioni di persone, ma intendiamo esattamente questo coinvolgimento, che è farli sentire parte della nostra vita così come noi – azienda – facciamo parte della loro vita.
Perché se noi diamo energia, se noi diamo un computer, un gelato, un vestito, noi entriamo nella vita di quelle persone, che tendono a sentirsi escluse, invece, dalla vita delle aziende perché percepiscono questo linguaggio come un linguaggio chiuso, che le prevede solo come un target da colpire, da raggiungere, da emozionare.
Un linguaggio pubblico
La seconda caratteristica del linguaggio, oltre ad essere scritto, è che è pubblico, e questa è l’altra grande evoluzione della comunicazione.
La comunicazione umana, tra umani, non è mai stata pubblica come negli ultimi anni.
Noi siamo abituati ad avere delle conversazioni private o semi-private e poi ci sono i mass media, che sono ovviamente una messa in scena di una scrittura, di un linguaggio altrui.
Invece in questo momento noi stiamo letteralmente assistendo in diretta alle conversazioni di milioni di persone che non sono del tutto consapevoli di essere in pubblico, però stanno cominciando a rendersene conto. Tanto è vero che sempre più spesso scelgono di andare in privato.
Penso di poter dare per scontato che tutti usiate WhatsApp o simili: lo spostamento delle conversazioni tra persone dalla scena pubblica alla scena semi-privata è iniziato nel 2012 ed è stato tutto merito dei ragazzi.
Abbiamo parlato per anni dell’incomprensione, da parte loro, dei pericoli della privacy e i ragazzi hanno capito benissimo che cosa vuol dire la privacy nel momento in cui i loro genitori sono arrivati su Facebook.
Non era la privacy che spaventava noi, ma la cosa che a loro stava a cuore era scappare da mamma e papà, quindi sono andati in ambienti dietro le quinte che permettono loro di stare tranquilli.
In rete quindi vediamo un linguaggio scritto, permanente, pubblico, che spesso mette in difficoltà più le aziende che le persone. Sì, le persone possono fare delle brutte figure, possono magari lasciarsi sfuggire qualcosa che non avrebbero voluto, possono rendere pubblico un messaggio che invece doveva restare privato, ma le aziende in questo momento stanno mettendo in scena soprattutto la loro ingenuità, la loro mancanza di comprensione di un ambiente di comunicazione che è sofisticato, ma anche abbastanza semplice.
Perché il linguaggio, appunto, è un congegno, una tecnologia, un meccanismo complesso, duttile e potente.
Noi crediamo ancora che gran parte del significato di quello che diciamo passi attraverso le parole; in teoria sappiamo, perché ce l’hanno detto, che la comunicazione non verbale è la cosa più importante, ma continuiamo a essere intimamente convinti che quello che passa sia il contenuto, le parole che scegliamo, quello che cerchiamo disperatamente di dire.
In realtà del linguaggio nella comunicazione noi cogliamo soprattutto il non detto, tutto l’implicito, la meta-comunicazione, e molto spesso delle aziende che parlano in rete si coglie proprio il non essere a loro agio, il non essere del tutto padrone di un ambiente, l’usarlo in modo goffo e quindi l’essere, paradossalmente, meno sofisticate e meno contemporanee delle persone a cui si rivolgono.
Questa è probabilmente il gap più importante da colmare.
Nel momento in cui una persona, un’azienda, un uomo politico, un giornalista, un autore, un filosofo – parlo proprio di tutti quelli nelle cui mani abbiamo messo i nostri destini – ancora continuano a non capire la rete nei suoi utilizzi quotidiani e quindi continuano a parlarne come un oggetto altro, un oggetto esterno, un oggetto poco interessante, ci stanno raccontando, senza saperlo, la loro mancanza di consapevolezza di quello che è, a tutti gli effetti, un sistema operativo.
Prima lo abbiamo definito una macchina, nel senso di un sistema operativo che connette le persone, connette le idee, connette i contenuti, connette tantissima stupidità, sicuramente, e tantissima superficialità, perché è fatto di umani che non passano il loro tempo a parlare di Plotino e di equazioni.
Ma abbiamo un grandissimo bisogno di comprensione sofisticata da parte di chi ha i mezzi per farlo, sia i mezzi economici sia soprattutto i mezzi culturali.
Abbiamo bisogno che chi decide e chi cerca di cambiare le cose sappia molto bene che cosa vuol dire comunicare in rete, che cosa vuol dire mettersi in scena, che cosa vuol dire narrarsi e non abbia più un approccio ingenuo, superficiale e reazionario.
Perché, appunto, i nostri destini sono nelle loro mani e quello che può succedere è che questi destini restino fermi, che la mancanza di consapevolezza del linguaggio e del modo in cui questo sta passando le informazioni di persona in persona sfugga loro di mano.
Quindi in realtà quando parliamo di rete, quando parliamo di social media soprattutto, quindi di media fatti dalle persone, non stiamo parlando solo di un cambiamento nel modo di comunicare, ma proprio di un cambiamento nel modo di costruire la realtà che stiamo vivendo e che è estremamente importante. È importante quando a farlo sono le aziende, ancora più importante è, ovviamente, quando a farlo sono i politici.
Quando le aziende sono quelle che ci danno energia, il loro ruolo è a metà, probabilmente tra la comunicazione aziendale e il far succedere le cose, quindi sono particolarmente contenta di questo interesse, di questo approfondimento, di questa mattinata, perché abbiamo davvero un gran bisogno di andare a vedere cosa c’è dietro al linguaggio, cosa c’è dietro alle parole che ci sono, cosa succede quando le persone ci dicono delle cose e noi non siamo in grado di comprenderle.