Il community management nell’era dei social media

Il community management è una pratica con ormai una trentina di anni di storia e molto poco praticata nelle piattaforme di social network. Chi ne fa una questione di volumi o scala, sbaglia: è una questione di cultura, perché community e network sono contesti socialmente molto diversi.

Ho imparato a non avere troppe certezze intorno al 2009, quando la rapida diffusione di Facebook dimostrò che una cosa di cui ero convinta – l’importanza dello pseudonimo, o nickname, nelle online community – era infondata. Facebook prosperava proprio perché ci si presentava con nome e cognome, tranquillizzando chi non apprezzava la possibilità di conversare con Ingorda86 o PaperinoInside (io sono stata, a seconda dei momenti, Isadora (da Erica Jong), Bianconiglio (da Alice), Alison Poole (da Easton Ellis/McInermey) e un paio di altre identità.
L’importanza del nickname non era legata all’anonimato, che in quegli ambienti era per gioco, non per nascondersi.  Già alla fine del secolo scorso era evidente il continuo passaggio tra vita digitale e mondo fisico, per cui bene o male, in situazioni normali, si sapeva chi era la persona nascosta dal nick e, fenomeno affascinante, si diventava chi si diceva di essere (ho molti amici dei tempi che chiamo per nick, più nome del nome). Il fascino del nickname era tutto nella ricchezza della possibilità di scegliersi un nome – di battezzarsi da soli – per vivere ed esprimersi in modo diverso.

Dover riconoscere questo errore mi ha portato, in seguito, a dare per scontato che molte scelte dei nuovi attori della socialità digitale fossero giuste, anche quando mi sembravano sbagliate. Tutto quello che avevo imparato gestendo, dal 1998 al 2008, community online piccole e grandi, spontanee o organizzate, aziendali o editoriali, tematiche o di cazzeggio, tutto quello che avevo scritto nel mio primo libro (Le tribù di Internet, 2001), tutto quello che avevo imparato dai miei maestri (Derek Powazek, Christian Crumlish, Erin Malone) sembrava non valere più.

I nuovi avevano ragione: le community non scalavano, i network sì. Quindi tacevo, anche se continuavo a pensare che qualcosa si fosse perso per strada. L’idea di un luogo centrale, uguale per tutti, per esempio, quale era l’home page delle community; l’idea di una policy condivisa, diversa dalle condizioni di servizio; l’idea di parità e di orizzontalità della conversazione (contraddetta già dai blog) e di autoregolamentazione tra pari, a difesa di un “luogo” che tutti sentono come proprio.

 

Una tipica home page di community dei primi anni del millennio

Il web 2.0, diversamente social

Ho anche rinunciato troppo velocemente a insistere sull’assurdità di considerare il web 2.0 un “social web”, a differenza del precedente (che lo era già, anche se non sempre su protocollo http). Forse questo è stato l’errore più grave di tutti: per moltissime persone, anche per chi in rete ci lavora, la socialità digitale nasce con Facebook nel 2005 e non con The Well nel 1985. Molti, troppi, confondono i volumi con la scala: la rete 1.0 aveva volumi piccoli, ma in scala era già tutto presente. Era una rete colta tecnicamente e non solo, ma con già tutti i germi dei problemi che poi sarebbero esplosi, perché presenti nella società: violenza, aggressività, insofferenza nei confronti della cultura (diversa) e della competenza (diversa), anticonformismo malinteso. Chi ne ha nostalgia è, appunto, un nostalgico: ha ricordi addolciti dal passare del tempo.

Probabilmente anche chi ha progettato e realizzato i social network, Evan Williams compreso (che si è fatto le ossa con i blog, non con i forum) ignora la lezione delle online community.

Ci siamo persi trent’anni di pratiche e competenze che, usate per tempo, ci avrebbero forse risparmiato di vivere nella situazione attuale, in cui non è ancora chiaro che gestire la socialità in spazi digitali prevede prima di tutto regole di convivenza, non condizioni di servizio. Regole, non leggi (continuo a pensare che per molti reati compiuti in rete le leggi di prima vadano benissimo); regole di convivenza, da definire insieme, senza dare per scontato che chi si comporta male sappia quello che fa.
Anni di errori, anche: spesso le regole interne delle community si sono trasformate in catene pensate soprattutto per compiacere i volontari che le applicavano, volontari che però sono un elemento fondamentale della sopravvivenza del piacere di stare insieme in ambienti digitali. Volontari che le piattaforme di social media non sanno neanche di poter attivare, perché tutti gli strumenti di segnalazione e gestione degli abusi girano intorno al principio di nascondere quello che ti dà fastidio, non di mantenere alta la qualità dell’ambiente e dell’interazione. Se ci si rivolge all’esterno si fa un accordo con altri professionisti, sconfessando un principio molto più saldo di quanto possa sembrare, quello dell’intelligenza distribuita (che non vuol dire sempre presente, ma aumentabile insieme, quindi bando alle facili ironie).

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Photo by Jez Timms on Unsplash

Il community management, questo sconosciuto

Il community management è una pratica con ormai una trentina di anni di storia e molto poco praticata nelle piattaforme di social network. Chi ne fa una questione di volumi o scala, sbaglia: è una questione di cultura, perché community e network sono contesti socialmente molto diversi. Non dev’essere per forza umano, ma i software, per imparare, devono avere degli esempi, non delle indicazioni univoche.

Le community nascono dalla controcultura californiana, i social network nascono in un clima economico e politico liberista, aggravato dalle lobby. Hippy contro Harvard.

Nelle community – quale è per esempio un gruppo Facebook – il luogo è percepito come un valore da proteggere prima di tutto dai partecipanti. Nei network il luogo ha poco o nessun valore, quella da proteggere è la relazione con i tuoi, non con tutti.

Le community nascono da una passione, i social network da una relazione.

Nei social network ognuno pensa per sé e si aspetta di ricevere un servizio (gratis), nelle community è chiaro a tutti che, finché si sta insieme, uno per tutti, tutti per uno.

Le community sono società con un proprio set di regole, i network sono regolati dalle relazioni e quindi variano a seconda dello stato delle relazioni.

Ovviamente i due contesti si possono mescolare e in parte si sovrappongono, ma questo non cambia il fatto che le regole e i comportamenti siano completamente diversi e applicati/rispettati in modi diversi.

Il modo più semplice per riconoscerli è il luogo: le community ne hanno sempre uno di riferimento, le reti no, viaggiano con le persone e con i contenuti che le persone pubblicano.

Nelle community l’autoregolamentazione è un istinto, nelle reti una forzatura. Gli amici sono una community, le reti una famiglia. Traetene le conseguenze del caso.

Abbiamo un gran bisogno di community management quando progettiamo la user experience di un ambiente di socializzazione. Quando usiamo una piattaforma possiamo comunque progettare il nostro spazio con le parole, i contenuti e i toni: ognuno di noi può regolare la qualità della sua vita digitale, ma solo se scopre e accetta che non è determinata da terzi una volta per tutte. È esattamente come arredare un appartamento: i muri portanti te li tieni, tutto il resto lo puoi gestire.